“Fenomenologia”
Johns Hopkins Guide for Literary Theory and Criticism entry (2nd Edition 2005)
Paul B. Armstrong
Fonte: http://litguide.press.jhu.edu/
La fenomenologia è una filosofia dell’esperienza. Per la fenomenologia la fonte ultima di ogni significato e valore è l’esperienza vissuta degli esseri umani. Tutti i sistemi filosofici, le teorie scientifiche o i giudizi estetici hanno lo status di astrazioni dal flusso e riflusso del mondo vissuto. Il compito del filosofo, secondo la fenomenologia, è quello di descrivere le strutture dell’esperienza, in particolare la coscienza, l’immaginazione, le relazioni con altre persone, e la collocazione del soggetto umano nella società e nella storia. Le teorie fenomenologiche della letteratura considerano le opere d’arte come mediatori tra le coscienze dell’autore e del lettore o come tentativi di rivelare aspetti dell’essere umano e del suo mondo. Il fondatore moderno della fenomenologia è il filosofo tedesco Edmund Husserl (1859-1938), che cerca di fare della filosofia “una scienza rigorosa” riportando la sua attenzione “alle cose stesse” (zu den Sachen selbst). Con questo non intende che la filosofia debba diventare empirica, come se i “fatti” potessero essere determinati in modo oggettivo e assoluto. Piuttosto, cercando dei fondamenti su cui i filosofi possano fondare con certezza la loro conoscenza, Husserl propone che la riflessione metta fuori gioco tutti i presupposti indimostrabili (sull’esistenza degli oggetti, per esempio, o sulle entità ideali o metafisiche) e descriva ciò che è dato nell’esperienza. La strada verso una filosofia senza presupposti, sostiene, inizia con la sospensione dell'”atteggiamento naturale” della conoscenza quotidiana, che presuppone che le cose siano semplicemente lì nel mondo esterno. I filosofi dovrebbero “mettere da parte” l’oggetto-mondo e, in un processo che egli chiama epoché, o “riduzione”, concentrare la loro attenzione su ciò che è immanente nella coscienza stessa, senza presupporre nulla sulle sue origini o supporti. La pura descrizione dei fenomeni dati nella coscienza, secondo Husserl, darebbe ai filosofi un fondamento di conoscenza necessaria e certa, giustificando così la pretesa della filosofia di essere più radicale e onnicomprensiva di altre discipline (vedi Idee 95-105 e Meditazioni 11-23).
I fenomenologi successivi sono stati scettici sulla tesi di Husserl che la descrizione possa avvenire senza presupposti, in parte a causa dell’analisi di Husserl stesso sulla struttura della conoscenza. Secondo Husserl, la coscienza è costituita da “atti intenzionali” correlati a “oggetti intenzionali”. L'”intenzionalità” della coscienza è la sua direzionalità verso gli oggetti, che essa contribuisce a costituire. Gli oggetti sono sempre colti in modo parziale e incompleto, in “aspetti” (Abschattungen) che vengono riempiti e sintetizzati secondo le attitudini, gli interessi e le aspettative di chi percepisce. Ogni percezione include un “orizzonte” di potenzialità che l’osservatore presume, sulla base di esperienze passate con o credenze su tali entità, saranno soddisfatte dalle percezioni successive (vedi Meditazioni 39-46).
Extrapolando dalla descrizione della coscienza di Husserl, Martin Heidegger (1889-1976) sostiene che la comprensione è sempre “avanti a se stessa” (sich vorweg), proiettando aspettative che l’interpretazione rende poi esplicite. Nella sezione “Comprensione e Interpretazione” in Essere e Tempo (1927) Heidegger sostiene che inerente alla comprensione c’è una “foresta” (Vorstruktur) di presupposti e credenze che guidano l’interpretazione. Il resoconto di Heidegger dell’interdipendenza tra comprensione e aspettative è in parte una riformulazione dell’idea classica che l’interpretazione dei testi è fondamentalmente circolare, in quanto nell’interpretazione la costruzione di un dettaglio testuale è sempre necessariamente basata su presupposti sull’insieme a cui appartiene (vedi Palmer e l’ermeneutica). La sua teoria della comprensione riflette anche i suoi presupposti sull’esistenza umana, che descrive come un processo di proiezione per cui siamo sempre fuori e oltre noi stessi mentre ci dirigiamo verso il futuro. La concezione di Heidegger della struttura anticipatoria della comprensione è importante per le versioni successive della fenomenologia che si concentrano sull’interpretazione e la lettura. La fenomenologia ermeneutica (specialmente quella sviluppata da Hans-Georg Gadamer e Paul Ricoeur) esplora ulteriormente il ruolo dei presupposti nella comprensione, e le teorie fenomenologiche della ricezione testuale (specialmente la “scuola di Costanza”, guidata da Hans Robert Jauss e Wolfgang Iser) indagano come le opere letterarie siano comprese in modo diverso da un pubblico con diverse convenzioni interpretative (vedi teoria della risposta del lettore e critica e teoria della ricezione).
Heidegger estende la preoccupazione di Husserl per l’epistemologia al campo dell’ontologia e nel processo, secondo alcuni critici, si allontana dall’originale rigore metodologico della fenomenologia e dal cauto evitare la speculazione. Essere e Tempo fornisce una descrizione delle strutture dell’esistenza umana (Dasein, o “essere-qui”), che può essere vista come un’applicazione delle indagini di Husserl sulla coscienza ad altre regioni dell’esperienza, incluse le relazioni con gli altri, il significato della morte e la storia. Le descrizioni di Heidegger dell’esistenza come un “progetto gettato” (geworfener Entwurf) e della “cura” (Sorge) come struttura fondante dell’essere umano sono la base delle teorie di fenomenologi esistenziali come lo psichiatra svizzero Ludwig Binswanger e i filosofi francesi Jean-Paul Sartre e Maurice Merleau-Ponty. La concezione dell’esistenza umana di Heidegger è guidata dalla sua preoccupazione per la “differenza ontologica”, la relazione tra “esseri” ed “Essere”. Definisce l’essere umano come quell’essere per il quale l’Essere è un problema, anche se trova che per la maggior parte della vita quotidiana la questione dell’Essere è trascurata o dimenticata. In Essere e tempo esplora l’esistenza quotidiana alla ricerca di prove indirette dell’Essere. Nella sua opera successiva Heidegger si rivolge allo studio del linguaggio, che considera la “casa dell’Essere”, e in particolare alla poesia, che ha secondo lui un potere speciale di rivelare l’Essere (vedi “Origine”).
Merleau-Ponty (1908-61) mantiene molte delle analisi esistenziali di Heidegger, mentre rifiuta le sue speculazioni metafisiche. Egli corregge anche la tendenza all’idealismo del primo Husserl, insistendo sul primato dell’esperienza percettiva e sulle ambiguità del mondo vissuto. Nella sua opera più importante, Fenomenologia della percezione (1945), Merleau-Ponty colloca la coscienza nel corpo. La sua nozione di “percezione” come conoscenza situata, incarnata e non riflessa del mondo rifiuta di separare la mente dal corpo o di trattare meccanicamente il corpo come un mero oggetto. La coscienza è sempre incarnata, sostiene, altrimenti le mancherebbe una situazione attraverso la quale impegnare il mondo, e la consapevolezza di Merleau-Ponty della necessaria situazionalità dell’esistenza gli fa sottolineare l’ineluttabilità degli intrecci sociali e politici nella costituzione dei soggetti. L’esperienza della coscienza incarnata è anche intrinsecamente oscura e ambigua, egli trova, e di conseguenza rifiuta il sogno del filosofo di una comprensione completamente trasparente. La riflessione non può sperare in una conoscenza completa e certa che trascenda la confusione e l’indeterminatezza dell’esperienza non riflessiva. L’attività di riflessione sulle ambiguità dell’esperienza vissuta è sempre superata e non può mai raggiungere il fondo della vita preesistente che cerca di comprendere. Per Merleau-Ponty, il primato della percezione fa della filosofia uno sforzo senza fine per chiarire il significato dell’esperienza senza negarne la densità e l’oscurità.
Anche Roman Ingarden (1893-1970), il padre fondatore dell’estetica fenomenologica, rifiuta l’idealismo, e scrive i suoi studi pionieristici L’opera d’arte letteraria (1931) e La cognizione dell’opera d’arte letteraria (1937) come contributi alla risoluzione dell’opposizione tra reale e ideale. Le opere d’arte hanno originariamente attirato la sua attenzione perché sembravano non appartenere a nessuno dei due regni. A differenza degli oggetti autonomi e pienamente determinati, le opere letterarie dipendono per la loro esistenza, sostiene, dagli atti intenzionali dei loro creatori e dei loro lettori. Ma non sono meri fatterelli o immagini-sogno private, perché hanno una “vita” intersoggettiva. Eppure il loro apparente status ideale come strutture di coscienza non li rende come i triangoli o altre figure matematiche, che sono oggetti veramente ideali, senza uno specifico momento di nascita o una storia di successive trasformazioni (vedi Work 331-55).
Ingarden descrive un’opera letteraria come “un oggetto intenzionale intersoggettivo” (Cognition 14). Ha la sua origine negli atti di coscienza del suo creatore che sono conservati nella scrittura o attraverso altri mezzi fisici, e questi atti sono poi rianimati (anche se non esattamente duplicati) dalla coscienza del lettore. Tuttavia, l’opera non è riducibile alla psicologia dell’autore o del lettore. Ha una storia che va oltre la coscienza che l’ha originata o la coscienza di ogni singolo lettore. L’esistenza di un’opera trascende qualsiasi esperienza particolare e momentanea di essa, anche se è nata e continua ad esistere solo attraverso vari atti di coscienza. Ingarden sostiene che l’opera ha una “modalità di esistenza onticamente eteronoma” (Work 362), perché non è né autonoma né completamente dipendente dalle coscienze dell’autore e del lettore; piuttosto, è paradossalmente basata su di esse, anche se le trascende.
Ingarden trova che l’opera letteraria è una formazione stratificata. Comprende quattro strati correlati, ognuno dei quali ha le sue caratteristiche “qualità di valore”: (1) i suoni delle parole, (2) le unità di significato, (3) gli “aspetti schematizzati” (le prospettive attraverso le quali vengono visti gli stati di cose), e (4) le oggettività rappresentate. L’opera nel suo complesso è “schematica”, sostiene, perché gli strati (specialmente gli ultimi due) hanno “luoghi di indeterminazione” che i lettori possono riempire in modo diverso. In un’opera di successo, sostiene Ingarden, gli strati si combinano per formare un insieme unificato che fornisce una “armonia polifonica di qualità di valore” (369-72).
Ingarden distingue la “concretizzazione” dell’opera da parte del lettore dall’opera stessa. L'”oggetto estetico” che il lettore produce è correlato all'”oggetto artistico” creato dall’autore ma differisce necessariamente da esso. Non solo i lettori con esperienze diverse risponderanno diversamente alle possibilità lasciate aperte dalle indeterminatezze dell’opera o alle qualità di valore disponibili nei vari strati, ma la cognizione di un’opera è un processo intrinsecamente temporale, così che “l’opera letteraria non è mai afferrata completamente in tutti i suoi strati e componenti ma sempre solo parzialmente”, in “scorci” che “possono cambiare costantemente” (334). Come altri oggetti che si presentano attraverso aspetti (Abschattungen), l’opera stessa è disponibile solo “orizzontalmente”, attraverso una serie di viste incomplete e prospettiche – varie esperienze nel corso della durata di una singola lettura o nella varietà di modi diversi in cui può essere “concretizzata” nel corso della sua storia. Ingarden sostiene, comunque, che “certi limiti di variabilità” vincolano una corretta o adeguata concretizzazione, e sostiene che questi limiti sono predeterminati dalla struttura dell’opera (352).
Ingarden è stato estremamente influente nello sviluppo delle teorie fenomenologiche del lettore-risposta, ma i suoi punti di vista sono stati anche sottoposti ad ampie critiche e revisioni, particolarmente da Wolfgang Iser (nato nel 1926). Iser rimprovera a Ingarden di limitare eccessivamente la variabilità delle concretizzazioni ammissibili. Secondo Iser, Ingarden postula “una pendenza a senso unico dal testo al lettore e non… una relazione bidirezionale”, che può assumere molte forme imprevedibili e forse inconciliabili (Atto 173). La lettura è un’attività più variabile e dinamica del semplice riempimento di spazi vuoti, sostiene Iser, e di conseguenza “un’opera può essere concretizzata in modi diversi, ugualmente validi” (178). Iser rimprovera inoltre a Ingarden di avere un’estetica di valore limitata e “classica” che privilegia l'”armonia” e non riesce ad apprezzare le interruzioni e le dissonanze attraverso le quali molte opere (specialmente moderne e postmoderne) ottengono i loro effetti. Per Iser, la lettura è un processo di scoperta in cui le sorprese, le frustrazioni e i rovesciamenti provocati dalle disgiunzioni in un’opera hanno il potere di provocare una riflessione sui presupposti del lettore.
L’apprezzamento di Iser per la disgiunzione lo porta anche a criticare la descrizione di Georges Poulet della lettura come un processo di identificazione. Per Poulet (1902-91), il mistero della lettura è che le barriere che ordinariamente dividono i sé vengono superate: “La mia coscienza si comporta come se fosse la coscienza di un altro” (56; vedi anche la scuola di Ginevra). Secondo Iser, tuttavia, la lettura è più paradossale di quanto Poulet suggerisca, perché “l’io reale e virtuale” non scompare mai del tutto anche se “l’io alieno” che governa il mondo del testo emerge (Implied 293). La lettura comporta quindi una duplicazione delle coscienze, che può dare origine a una nuova comprensione di sé come risultato della giustapposizione dei propri modi abituali di pensare con quelli richiesti dal testo. Hans Robert Jauss (nato nel 1921) arriva a equiparare il “valore estetico” di un testo con la sua richiesta di un “cambiamento di orizzonti” nel lettore a causa della disparità tra “l’orizzonte delle aspettative” del pubblico e l’orizzonte dell’opera (25). Jauss suggerisce che man mano che le opere letterarie diventano familiari (per esempio, attraverso la canonizzazione) il loro valore può diminuire, perché perdono la loro capacità di scioccare, sorprendere e sfidare il lettore.
La fenomenologia ha prodotto molti studi sull’immaginazione, e tra i più originali di questi ci sono i lavori di Gaston Bachelard (1884-1962). Bachelard considera l’immagine poetica come un luogo privilegiato in cui emerge un nuovo significato e attraverso il quale l’essere si rivela. “Il poeta parla sulla soglia dell’essere”, sostiene Bachelard, e l’originalità dell’immaginazione poetica testimonia la libertà umana mostrando “la natura imprevedibile della parola” (xii, xxiii). Bachelard chiede che i lettori, per aprirsi alle rivelazioni dell’immagine, mettano da parte i preconcetti e coltivino una capacità di meraviglia. “Bisogna essere ricettivi”, dice, e “riverberare” con la poesia per sperimentare “l’estasi stessa della novità dell’immagine” (xi). In opere come La poetica dello spazio (1957), Bachelard cerca di esemplificare la pratica che sostiene, permettendo giocosamente alla sua immaginazione di risuonare in risposta a immagini di vario tipo. Egli è particolarmente attratto dalle immagini dello “spazio felice”, che suggeriscono il “valore umano” dei luoghi e degli oggetti (xxxi). L’atteggiamento di Bachelard verso le immagini può essere tuttavia contraddittorio. Al suo meglio considera le immagini come prova del significato vissuto dello spazio, ma a volte scende sotto l’esperienza e cerca le origini delle immagini negli archetipi inconsci e senza tempo della psicologia junghiana (vedi teoria e critica archetipica). In ogni caso, le fantasticherie di Bachelard sulle immagini di luogo sono esse stesse dimostrazioni liriche delle possibilità creative della parola.
Interpretazione e linguaggio sono stati i temi centrali della fenomenologia del tardo ventesimo secolo. Per evitare che le sue riflessioni diventino solipsistiche e astoriche, Paul Ricoeur (nato nel 1913) invita la fenomenologia a prendere una svolta ermeneutica e a dirigere la sua attenzione non verso la coscienza individuale, ma verso gli oggetti culturali, che forniscono prove sociali e storiche dell’esistenza. Poiché “il cogito può essere recuperato solo attraverso la deviazione di una decifrazione dei documenti della sua vita”, la riflessione deve diventare interpretazione, cioè “l’appropriazione del nostro sforzo di esistere e del nostro desiderio di essere attraverso le opere che testimoniano questo sforzo e questo desiderio” (102). La fenomenologia ermeneutica deve anche esplorare il conflitto delle interpretazioni perché la possibilità di “metodi molto diversi, persino opposti” di comprensione è un aspetto fondamentale della nostra esperienza come esseri interpretanti (99). La preoccupazione di come emergano nuovi e diversi modi di comprensione ed espressione porta Ricoeur a prestare particolare attenzione alla creatività nel linguaggio, specialmente alle innovazioni semantiche della metafora. La fenomenologia nega che la struttura da sola possa spiegare adeguatamente il linguaggio, perché nuovi modi di significato possono essere introdotti solo attraverso eventi del discorso, che possono estendere o rovesciare i limiti delle convenzioni esistenti. La fenomenologia nega anche che il linguaggio sia chiuso in se stesso. Come sostiene Ricoeur, “i testi parlano di mondi possibili e di modi possibili di orientarsi in questi mondi” (144). Il linguaggio e l’interpretazione non sono sistemi stabili e chiusi per la fenomenologia, perché il significato, come l’esperienza, è infinitamente aperto a nuovi sviluppi.
L’intrinseca incompletezza di ogni momento dell’esperienza è la base dell’influente critica di Jacques Derrida alla versione della fenomenologia di Husserl. Mettendo in discussione il sogno di Husserl di una filosofia senza presupposti, Derrida (nato nel 1930) trova “un presupposto metafisico” nell’assunzione stessa che si possa trovare un regno di “evidenza originaria auto-donante”, una “auto-presenza” che è semplice, autonoma e precedente alla significazione (4-5). Usando le teorie di Husserl sul tempo e l’intersoggettività, Derrida dimostra che “la non presenza e l’alterità sono interne alla presenza” (66). Poiché la conoscenza è sempre prospettica e incompleta, il presente dipende dalla memoria e dall’aspettativa (il non più e il non ancora) per dare un senso al mondo; gli elementi di assenza devono di conseguenza essere parte della presenza per essere significativi. Inoltre, la certezza che le proprie auto-riflessioni rivelino strutture di conoscenza ed esistenza generalmente condivise si basa sul tacito presupposto che un’altra coscienza sperimenterebbe questo momento come noi, ma questo presupposto è ancora una volta la prova che la presenza del sé a se stesso manca dell’autosufficienza che Husserl cercava nella sua ricerca di una solida base per la filosofia. Secondo Derrida, l’impegno di Husserl per una visione della conoscenza come necessaria, certa e garantita da intuizioni indubitabili gli ha impedito di riconoscere la falsità di questo ideale anche se le sue stesse teorie sulla coscienza e l’esperienza lo contraddicono implicitamente. Derrida conclude: “Il senso, essendo di natura temporale, come riconosceva Husserl, non è mai semplicemente presente; è sempre già impegnato nel ‘movimento’ della traccia, cioè nell’ordine della ‘significazione'” (85). Non c’è modo di andare al di sotto della struttura ripetitiva e ripresentativa della significazione, sostiene Derrida, perché la supplementarità – la sostituzione di un segno o “traccia” con un altro – è la struttura dell’auto-presenza.
La fenomenologia contemporanea ha in gran parte abbandonato il sogno di Husserl di trovare basi indubitabili per la conoscenza. La sua ricerca di una filosofia senza presupposti sembra ora un esempio di ciò che Hans-Georg Gadamer (1900-2002) chiama “il pregiudizio fondamentale dell’illuminismo”, cioè “il pregiudizio contro il pregiudizio stesso, che priva la tradizione del suo potere” (270). Anche se alcuni pregiudizi possono essere fuorvianti, costrittivi e oppressivi, la comprensione è impossibile senza pre-giudizi (Vor-urteile) del tipo fornito dalle convenzioni culturali e dalle credenze ereditate. Secondo Gadamer, “Il superamento di tutti i pregiudizi, questa richiesta globale dell’illuminismo, si rivelerà essere essa stessa un pregiudizio, la cui rimozione apre la strada a una comprensione appropriata della nostra finitudine” (276), compresa la nostra appartenenza alla storia, alla cultura e al linguaggio. In gran parte grazie all’influenza di Gadamer, la fenomenologia ermeneutica e la teoria del lettore-risposta hanno rivolto la loro attenzione al ruolo dei costumi, delle convenzioni e dei presupposti nella costituzione del soggetto umano e nella sua comprensione del mondo. Ciò che rimane distintivo della fenomenologia è la sua focalizzazione sull’esperienza umana, ma i fenomenologi del tardo ventesimo secolo hanno sottolineato l’intrinseco intreccio dell’esperienza nel linguaggio, nella storia e nelle tradizioni culturali.
Paul B. Armstrong
Bibliografia
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